9 maggio 1978: Peppino Impastato, giornalista e militante politico – che per anni, attraverso i giornali e la radio, aveva denunciato le attività dei boss e il malaffare di Cosa nostra – perdeva la vita saltando in aria sui binari della ferrovia di Cinisi, suo paese natale alle porte di Palermo.

Il giorno successivo, il 10 maggio, non solo quello che rimaneva del suo corpo fu ritrovato sparso per 300 metri di distanza, ma ebbe inizio una complessa campagna di depistaggio per far credere che era un terrorista morto a causa di una bomba da lui piazzata sui binari.

Nato in una famiglia legata alla mafia – suo zio, Cesare Manzella, era un capomafia – scelse da subito di non seguire le orme famigliari, fondando Radio Aut – un’emittente radiofonica tramite la quale rivelava gli affari sporchi di don Tano Badalamenti – il boss che decretò la sua morte – e di altri affiliati.

Candidatosi come consigliere comunale nelle liste della Democrazia Proletaria, venne eletto nonostante la sua dipartita da parte di Cosa Nostra – a dimostrazione di quanto il suo impegno fosse stato in grado di dare dei risultati – in un paese che non parlava, non vedeva, non sentiva.

Solo dopo 23 anni, Peppino Impastato è stato finalmente riconosciuto come vittima di mafia, per via dell’indifferenza e della paura – in pochi avevano il coraggio di denunciare gli interessi della malavita di Cinisi – mentre le infiltrazioni per la costruzione dell’aeroporto di Palermo, le speculazioni edilizie, il traffico di droga l’America proseguivano, ostacolate soltanto dalla polizia.

Le indagini sulla sua morte furono archiviate nel 1984 e nel 1992 e, unicamente grazie alla grande determinazione e al coraggio di Felicia Bartolotta – la madre di Peppino – nel 1995 si ebbe il processo definitivo contro il boss Gaetano Badalamenti – responsabile per aver commissionato l’omicidio – che venne condannato all’ergastolo.

 

Fonte articolo: fanpage.it

Fonte foto: twitter.it

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