Ingmar Bergman.

Una delle personalità più innovative e poliedriche della storia del cinema mondiale, il cui stile ha influenzato registi “moderni” come Woody Allen e Olivier Assayas, oltre a suoi contemporanei come Franois Truffaut e Franois Ozon. Un regista che, come pochi, ha mostrato le vere potenzialità del lato tecnico/visivo dei film e, allo stesso tempo, uno sceneggiatore complesso e raffinato in grado di trattare argomenti come il terrore della morte, la fede, la crisi spirituale, i traumi del passato e il ricordo della giovinezza perduta con efficacia, se non con la dovuta perfezione formale e morale.

Tra i suoi capolavori che, ancora oggi, insegnano “l’arte del cinema”, vi è Il Posto delle Fragole, per molti il “road movie” per antonomasia, carico di simbolismi e di analisi introspettive dolorose. Isak Borg, biologo e anziano professore di medicina, si reca a Lund per ricevere un prestigioso riconoscimento accademico e, per ritirarlo, decide di viaggiare in auto, accompagnato da Marianne, sua nuora. Ma quello che doveva essere il momento del suo più grande trionfo, finirà per trasformarsi in un duro atto d’accusa nei suo stessi confronti, nel corso del quale la maschera che si è costruito nel corso degli anni per riuscire a sopravvivere si frantumerà, nella cieca e ineluttabile comprensione che la possibilità di poter tornare indietro e cambiare ciò che è stato per sostituirlo con qualcosa di più giusto e positivo è impossibile.

Sarà nel ricordo della dolce cugina Sara, da lui amata in gioventù, che Borg cercherà un qualche tipo di rifugio senza trovarlo, in una consapevolezza catartica e intrisa di rimpianti per una giovinezza e una felicità che non sono mai state realmente vissute, in una vita che sta inevitabilmente volgendo al termine; neanche chiudendo gli occhi per quella che sembra l’ultima volta, lui riuscirà a trovare l’agognata pace.

Il Posto delle Fragole – Quando la redenzione è senza alcuna speranza

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