La dottoressa Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, durante una conferenza stampa a Ginevra, ha illustrato l’attuale situazione nella Repubblica Democratica del Congo, da 7 mesi preda di quella che viene definita “la più grande epidemia di Ebola mai affrontata dalla medicina”.

Da quando ha avuto inizio l’anno, i tentativi di arginare la portata del virus si sono dimostrati fallimentari su tutta la linea, con il 50% di casi che si concentrano, per il momento, a Katwa e Butembo, nella provincia del Nord Kivu.

Il fatto che nell’epicentro dell’epidemia, la quasi totalità dei pazienti colpiti dall’infezione non aveva collegamenti conosciuti con altri casi, e i fallimenti nel curare i malati con nuovi vaccini e trattamenti che mostrano risultati promettenti quando vengono usati in tempo, fa emergere ipotesi alquanto scomode.

Al momento, il sospetto che l’uso della forza da parte dei militari, con la scusa di proteggere i centri di trattamento dell’Ebola, che hanno subito molteplici e violenti attacchi, serva a fomentare paura nelle comunità dove si è manifestata l’infezione, per spingerle ad isolarsi, non è una teoria da scartare.

Tra i fattori a supportarla, il massiccio dispiegamento di risorse finanziarie impiegate allo scopo di contrastare la malattia in una regione piena di conflitti, violenze e bisogni sanitari di lunga data, come pure la discutibile decisione di rinviare le elezioni politiche in attesa di tempi migliori, non fa che aumentare i sospetti su potenziali complotti.

Le misure sanitarie, finora adottate con l’uso della coercizione per il monitoraggio e il trattamento dei pazienti, oltre che per la decontaminazione delle case e il garantire sepolture sicure, hanno permesso solo l’aggravarsi della crisi, che continua inarrestabile a proliferare.

Solo con il coinvolgimento dei pazienti e delle loro famiglie nella gestione del problema, insieme all’estensione delle campagne di vaccinazione per bloccare il diffondersi dell’epidemia si può sperare di fermarla; continuare a considerare gli infetti alla strenua di una “minaccia biologica” non è solo controproducente, ma anche inumano.

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