Il dialetto napoletano, come oramai sappiamo tutti, è un caleidoscopio di terminologie che hanno radici profonde con lingue di importazione e che ci hanno conquistato nei secoli. Esso nasconde segreti straordinari, vere pietre miliari del ‘parlare giornaliero’.

Dal mondo greco, romano, arabo, normanno-svevo (tedesco), francese, spagnolo, questi termini hanno creato quel vocabolario di parole che tutt’ora nel nostro dialetto internazionale e protetto dall’Unesco, ci invita ad una curiosa analisi e ad una originale ricerca del suo significato, del significante e del contesto in cui ha avuto origine.

Questo articolo, senza presunzione, cerca di informare e rispondere a quelle stuzzicati domande che ogni tanto ci poniamo… ma che vuol dire? Perché di usa questo termine? Chissà da cosa proviene questa parola!

Ecco un simpatico elenco di tre parole:

  • ‘Nzuvarato, ‘nzuarato che è il participio passato di ‘nzuarà ovvero allappare, allegare, riferito alla frutta che avendo raggiunto la maturità è aspra e legnosa alla bocca, allegando i denti. Generalmente è legato al diospero (dal greco frutto degli dei) o loto del giappone (il frutto cachi) e alla sorbe. Quando il frutto è dopo l’ammezzimento (per molti infradiciamento) ha quel sapore legnoso come sughero, appunto insugherato=inzuberato, inzuvereto, nzuvarato.

Altri ricercatori e studiosi fanno risalire il termine alle sorbe, con in+sorbum. Per quanto nasce un modo di dire: “Me’ sente ‘nzuarato, è ‘a staggione d’ ‘a legnasanta”. Quest’ultimo termine ‘legnasanta’ vuol significare ‘cachi’, perché all’interno del frutto, aperto perfettamente a metà, è possibile guardare la placenta, ossia la parte di colore bianco, la cui forma è simile a quella di Gesù Cristo sulla Croce. Tant’è vero questa idea popolare che la parte inferiore oblunga che si dirama verso l’alto, e si allunga ai lati crea l’idea delle due “braccia”, a formare la testa. Il nome si è inculcato nella tradizione partenopea nel periodo spagnolo, infatti i conquistatori usavano chiamare il frutto anche palo santo.

Quindi di conseguenza essere ridotti al disfacimento (infradiciato, ammezzimento) come il frutto che ricorda la croce legnosa di Cristo, così il sapore legnoso, di sughero in bocca, insugherato=’nzuarato.

  • Trivulo, sta ad indicare: fastidio, lamento, mestizia fino a gemito, pianto. Originariamente era l’arnese da pesca in ferro con tre punte poi passato ad indicare con senso cristiano afflizione come uno spino (indicando anche quello che ferì Cristo dalla corona durante il suo Calvario).

Il termine ha origine dal latino tribulum a sua volta derivato dal greco tríbolos, appunto l’arnese da pesca sopracitato che provocava dolorose punture e patimenti. Ma nel napoletano si intende persona che ne fa soffrire altre, le fa patire. Ecco due proverbi che ben spiegano questo uso personalizzato del termine: “In ammore nun teme’ ‘o trivulo, ma ‘a stanchezza!” ovvero che in amore non temere il pianto, ma la stanchezza; mentre, abbiamo anche “Nun fa ‘o trivulo dint’ ‘a casa e ‘a festa dint’ ‘a chiazza!” cioè non fare il musone a casa e il festaiolo in piazza. Un tempo indirizzata dalle mamme verso i propri figli maschi erano sempre immusoniti ed insoddisfatti in casa dove esternavano (per il solo gusto di farsi commiserare).

  • Zandraglia, zantraglia che sta a puntualizzare una donna volgare ed incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo. Questo termine arriva dai conquistatori francesi.

Dal francese “les entrailles” che stava ad indicare le donne povere, volgari e vocianti che si contendevano il cibo, fuori le porte delle cucine reali o del macello situato a Napoli. Accanto ad un ponte posto alla foce del fiume Sebeto (1330 circa) detto ponte Licciardo o Guizzardo o Ricciardo, ed infine della Maddalena intorno al 1747 per una chiesa lì sorta. Queste donne insomma si ‘litigavano’ le interiora e le ossa delle bestie macellate, da qui anche l’espressione partenopea: “va’ fa ll’osse ô ponte”, ovvero vai a raccattar le ossa al ponte. Disgustati i cuochi francesi incominciarono ad utilizzare il termine, che poi si diffuse nel popolino partendo dalla servitù del palazzo e delle cucine reali, come les entrailles= lesantraglie, lezandraje, le zandraglie.

Successivamente questo significato venne usato per designare le donne scelte per ripulire dai resti umani i campi di battaglia e/o i luoghi di esecuzioni capitali, che si dividevano gli oggetti per poi rivenderli. Altri fanno risalire il termine andrajo come cencio, straccio.

In questo caso non vi è un proverbio ma è nato un piatto della tradizione campana.  È ‘o piatto de’ ‘e zandraglie, proveniente da Boscoreale.  Si tratta di una ricetta a base di farina, uova e acqua, che all’epoca della dominazione angioina, rappresentava un cibo salato, povero e molto consumato dai contadini. Oggi invece si è tramutato nelle chiacchiere napoletane o frappe, bagnati nel miele e decorati con piccole codette di zucchero colorate, in occasione della festa di Santa Maria Salòme. Forse proprio per la confusione del personaggio biblico che richiama l’altra più famosa corrotta ballerina nipote di Erode, si è unito il termine offensivo alla pia donna del sepolcro.

Per questo primo articolo terminiamo, ne seguirà un nuovo con altre terminologie.

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