L’Immigrazione.

Un tema che, in questi anni, è diventato alquanto scottante, a causa dell’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalla guerra nei loro paesi d’origine, o in cerca di un “futuro migliore” per sfuggire alla povertà e alla fame, solo per ritrovarsi in condizioni peggiori di quelle che si sono lasciati alle spalle, vivendo in baraccopoli fatiscenti e costretti a vivere di elemosina o a svolgere lavori faticosi per pochi spiccioli, finendo per essere considerati “crumiri” da chi lavora in maniera regolare per colpa di datori di lavoro che, con lo stipendio di un normale lavoratore, ne riesce a pagare tre o quattro, per non parlare di una parte della classe politica, pronta a sfruttare per infami fini propagandistici ogni incidente o azione criminale per condannare interi gruppi sociali o religiosi per via delle azioni di poche “mele marce”, con effetti davvero dannosi.

Eppure, per circa un secolo, dal 1870 al 1970 e in anni recenti, per colpa di una crisi economica che fatica a passare, siamo stati costretti ad andare a cercare fortuna oltreoceano, soprattutto in America, Brasile, Australia, o in altri paesi della comunità europea, come Inghilterra, Germania, Francia, affrontando lo stesso tipo di pregiudizi e di persecuzioni che noi abbiamo subito, riuscendo a tenere duro e a prosperare sulle avversità che ci trovavamo davanti.

A narrare una delle pagine della nostra emigrazione in altri paesi, nel 1950, se ne occupò Pietro Germi, uno di quei “nobili artigiani” che resero grande, negli anni d’oro, il cinema italiano, regista, tra l’altro, di capolavori come Divorzio all’Italiana, Sedotta e Abbandonata, Signore & Signori, Il Ferroviere che, nel film Il Cammino della Speranza, narra, a partire dalla durezza dell’incipit e il tempo sospeso dei paesini siciliani, la storia di un gruppo di minatori di una zolfatara della Sicilia che, perso il lavoro per via dell’esaurimento della materia prima, si vedranno costretti ad emigrare in Francia grazie all’aiuto di un “caporale” che, dopo essere giunto con loro nel Lazio, fuggirà con i loro soldi, costringendoli a cavarsela da soli.

Giunti, grazie all’aiuto di un camionista in Emila Romagna, verranno accusati di rubare il lavoro ai contadini per colpa di un proprietario, che, privo di braccianti a causa di uno sciopero, li userà per poi scacciarli come cani, fino al momento in cui coloro che hanno deciso di proseguire, raggiunto con difficoltà il confine italo-francese, affronteranno una tempesta di neve, che ucciderà il più anziano di loro, per poi riuscire a raggiungere la loro metà senza che i doganieri, che li hanno intercettati, li fermino, dopo aver compreso l’inferno che hanno attraversato, dimostrandosi gli unici ad avere un briciolo di pietà nei loro riguardi.

Un film del calibro de Il Cammino della Speranza meriterebbe di essere trasmesso non solo nelle tv commerciali, ma anche nelle scuole perché vi traspare una attualità stringente e dolorosissima, perché gli emigranti italiani di ieri sono gli africani di oggi, che spendono i loro risparmi per un viaggio della speranza pericoloso e mortale, di continuo esposti alla paura di dover essere rispediti nel loro paese a morire di fame o di guerre, perseguitati e arrestati solo perché cercano di costruirsi un futuro migliore, come abbiamo fatto noi, un tempo.

Perché anche noi siamo stati, e siamo ancora, immigrati.

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