Il Mostro di Frankenstein.

Un romanzo gotico / horror / fantasy scritto da Mary Shelley, pubblicato nel 1818 e subito diventato uno dei capostipiti della letteratura di tale genere grazie al suo affondare nelle paure umane, grazie alla “creatura” generata dall’omonimo dottore, esempio della paura del diverso, che causa terrore a chi teme chi non è come noi, espressione potente ed impietosa della paura per lo sviluppo tecnologico privo di controllo, ed utilizzato come monito agli esperimenti illeciti o discutibili dal punto di vista etico e morale in ambiti di tipo letterario, cinematografico e televisivo.

Ma esiste solo questo modo per interpretare una tale, magnifica opera?

No, se a dar vita ad un’operazione di questo calibro è quel genio dissacratorio e satirico di Mel Brooks, soprattutto se può contare, nel doppio ruolo di co-sceneggiatore e di attore, di un talento fuori dal comune come Gene Wilder.

Un discendente dell’omonimo dottore – che vive ed insegna nella New York degli anni Trenta – riceve in eredità il castello appartenuto al suo celebre antenato e, una volta giunto nel luogo tenta, con l’aiuto del nipote dell’aiutante del nonno, di ridare la vita alla creatura – grazie all’innesto di un cervello umano di un grande genio – dopo aver corretto tutti gli errori che l’esimio dottore aveva fatto quando aveva generato il suo esperimento al principio.

Ma, a causa di uno scambio di cervelli, il Mostro ritornerà in vita alla sua vecchia maniera, e solo dopo varie disavventure – nelle quali incontrerà persone al cui confronto lui sembra essere assolutamente normale – riuscirà ad avere finalmente un sistema neurale normale e la capacità di parlare grazie al discendente del suo ideatore, che sovrascrivendo gli schemi cerebrali danneggiati con i propri, lo renderà in grado di vivere finalmente una vita normale.

Un film che mostra come, da angolazioni differenti, si possa ancora dire molto su qualcosa su cui si crede di aver detto tutto

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