In uno dei quartieri più affollati e rumorosi della città di Napoli, chiamato Pignasecca, si erge il famoso Ospedale dei Pellegrini che custodisce al centro del suo cortile, la chiesa della SS. Trinità.

Nato per volere di Don Fabrizio Pignatelli di Monteleone che inizia a dar corpo ad un primo luogo di accoglienza per i pellegrini, edificando nella seconda metà del’500 la chiesa di S. Maria Mater Domini, l’opera sarà presa in eredità da sei artigiani, tra i quali si ricorda il sarto Bernardo Giovino, che chiedono e ottengono l’aggregazione romana all’Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini.

Ebbe inizio nel convento di Sant’Arcangelo a Bajano il progetto dell’omologa confraternita romana fondata nel 1548 da san Filippo Neri, anche a Napoli e crebbe così in fretta che dapprima si trasferirono nei più ampi locali di San Pietro ad Aram finché, nel 1583 gli esecutori testamentari del Pignatelli non la identificano come degna di ricevere l’eredità morale e patrimoniale di Don Fabrizio.

Ma tornando alla chiesa, essa a sua volta custodisce uno dei dipinti più emozionanti di Napoli, soprattutto per il legame con il santo Patrono San Gennaro.

Seppur si presenta con una facciata molto simile ad un tempio, SS. Trinità dei Pellegrini accoglie il visitatore con un enorme scalone in piperno, e con due statue, opere di Angelo Viva, che rappresentano i santi protettori Gennaro e Filippo Neri.

L’interno si pone con una pianta formata da due ottagoni uniti da un rettangolo, con il primo ottagono che assume la funzione di navata ed il secondo che funge da oratorio, mentre il rettangolo ne diviene il presbiterio. Sulla navata si erge la grande cupola, anch’essa ottagonale come la Terrasanta e il Coro, impreziosita da affreschi monocromi di Melchiorre de Gregorio e raffiguranti i quattro evangelisti.

Nella chiesa spicca l’opera di Francesco Fracanzano con il Transito di S. Giuseppe, ovvero la sua morte, il Cristo Crocefisso con Giovanni e le tre Marie di Andrea Vaccaro, e dietro la balaustra marmorea settecentesca l’altare maggiore in marmo policromo, realizzato da Mario Gioffredo e ampliato da Carlo Vanvitelli, e gruppo scultoreo di Angelo Viva, circondato dalle quattro grandi tele di Giacinto Diano. Vi è anche il Coro dei Confratelli, che fu realizzato prima della chiesa, usato come oratorio dall’Arciconfraternita, su progetto dell’ingegnere G. A. Medrano e completato dall’architetto Giuseppe Astarita che ha disegnato gli ornamenti, gli stucchi e l’arredo ligneo in noce. Al centro il banco del governo sovrastato in alto dalla tela di Francesco De Mura e allievi, con La Vergine che intercede la SS. Trinità per le anime del Purgatorio. E tante altre opere.

Ma proprio all’inizio del nostro ingresso in chiesa, sul di un lato, il dipinto a due mani di Onofrio Palumbo e Didier Barra, intitolato San Gennaro che allontana i fulmini da Napoli.

L’opera di Palumbo e Didier Barra si presenta con la Trinità in una sorta di trono barocco composto da nuvole vaporose e solide, con Cristo a sinistra che punta il dito verso la città di Napoli mentre col braccio destro, alzato, la minaccia con una saetta. Al suo fianco il Dio Padre con gesti benedicenti verso il Figlio sembra a sua volta benedire l’azione, al centro nel cielo dorato lo Spirito Santo in forma di colomba bianca.

Ad un livello intermedio il santo Patrono Gennaro cerca di placare la furia divina, in ginocchio, con il baculo dorato ai suoi piedi, il vestito broccato, richiamando la tradizione popolare di ‘Faccia Gialla’, che pone le mani in avanti fermando, in protezione la città di Napoli, che in lontananza e in basso rischia la furia divina.

Se nella parte superiore le nuvole e il cielo è lacerato dai conflitti, poco giù altre nuvole retroilluminate con sprazzi di cielo e il sole che sorge, irradiano montagne da ‘eden’ e una città delicatamente ritratta fra il mare e le colline, opera di Didier Barra.

Le nuvole che sorreggono la Trinità e S. Gennaro non sono meteorologiche, ma ieratiche, compatte, volutamente non realistiche, maestose che sottolineano l’impossibilità dell’uomo nel potersele prefigurare e che mai potranno vedere.

Il Santo Patrono in questo spazio intermedio si pone vulnerabile, egli è esposto al rischio per difendere la città, e stando più vicino all’osservatore, permette di entrare in questo dramma straordinario, ne è visibile il suo dispiacere nell’espressività del viso che compiange i suoi figli.

La capitale del regno è occupata dagli spagnoli, ciò è visibile nell’andirivieni delle navi, fiore all’occhiello in quegli anni, e dalla presenza tra le cupole, di chiese e monasteri, di castelli e baluardi militari come Sant’Elmo, Pizzofalcone e i Quartieri Spagnoli in piena sintonia di protezione e connessione come la protezione del Patrono.

Infatti, l’ambra del broccato del Santo richiama con l’argento intrecciato le strade e gli edifici della città adagiati in basso, richiamando lo stesso rettilineo e gli stessi colori, insomma il dipinto è al tempo stesso una visione escatologica e un manifesto politico. Non a caso i due angeli, avvolti dalla stola dorata del santo, sulla sinistra s’avvicinano a Cristo e portano in dono il sacrificio-martirio, prodigio-miracolo, figurativo nell’ampolla contenente il famoso sangue che liquefa.

Una scena tumultuosa si appresta a divenire una tragedia che pioverà come tempesta sulla inconsapevole, peccatrice, città di Napoli e quel cielo dorato sembra tramutarsi in un fuoco ardente di luce che brucia le nuvole divenendo premonitore dell’accadimento…  ma la Ss. Trinità viene fermata, perché a lei, si immola il protettore dei partenopei S. Gennaro, colui che più e più volte, protegge silente o meno, (citando B. Croce) un paradiso abitato da diavoli.

fonte ph: wikipedia

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