Il 23 gennaio 1799 venne proclamata la Repubblica Partenopea, giacobina e rivoluzionaria, una e indivisibile, guidata dai suoi patrioti, tra i quali Eleonora de Fonseca Pimentel, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Luisa Sanfelice, Gennaro Serra di Cassano e tanti altri.
La marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel, detta Lenòr, nata a Roma ma portoghese di origine e poi trasferitasi a Napoli con la famiglia, è senz’altro la figura più affascinante della grande utopia repubblicana del 1799.
Giornalista, scrittrice e poetessa, fervente rivoluzionaria che ha speso la sua vita, rinunciando a un’agiata esistenza da nobildonna, tra politica, amore, famiglia, fede, disgrazie personali, fra cui quella di non essere riuscita a diventare madre.
Una vita vissuta tra gli splendori e le miserie della corte borbonica, tra gli illuminati intellettuali e il popolo minuto. Si ispirò alle concezioni illuministiche del tempo, a Diderot, a Voltaire, al suo amico Gaetano Filangieri. Gli ideali propugnati dalla Rivoluzione Francese furono decisivi per dare una svolta definitiva alla sua vita, una vita intensa, appagante e sofferta, purtroppo conclusasi tragicamente.

“[…]Siamo liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà e uguaglianza, ed annunciarci alla repubblica Madre come suoi degni figliuoli; a’ popoli liberi d’Italia ed Europa, come loro degni confratelli.
Così comincia il primo articolo del “Monitore Napoletano” scritto da Lenòr e voluto fermamente per diffondere tra il popolo i principi sacri di libertà e uguaglianza. Principi illuminanti per far valere la ragione contro un regime dispotico e assolutista. Sull’onda dell’entusiasmo Eleonora compone anche un “Inno alla libertà”.
Nel fervore dello storico momento fu interpellato perfino San Gennaro, chiedendogli di suggellare il grande evento con il miracolo dello scioglimento del sangue nell’ampolla. Il miracolo avvenne la sera stessa e ciò fu giudicato di buon auspicio. Purtroppo le cose andarono diversamente. Fu una mera illusione dei rivoluzionari e si risolse tragicamente dopo solo cinque mesi.

I patrioti credevano fermamente alla magica virtù della libertà come eterna e infallibile, dal carattere quasi religioso. Pensavano che bastasse promulgare alcune leggi fondamentali per andare incontro a ciò che il popolo desiderava. Ma scoprirono, com’era già accaduto ai loro colleghi francesi, che il popolo reale non era il popolo da essi idealizzato. La “plebe era corrotta e bisognava educarla alle virtù della libertà, della giustizia e della fratellanza“. Libertè, egalitè, fraternitè. Le riforme, frettolosamente apportate in nome di questi principi, si rivelarono fallaci e in più il popolo, cosa di non poco conto, era rimasto visceralmente legato alla monarchia, lontano culturalmente dei nobili ideali che la repubblica propugnava.
La rivolta fu brutalmente repressa, dopo soli cinque mesi, dalle bande realiste del cardinale Ruffo di Calabria, che attaccarono la roccaforte di S.Elmo. Ebbero la meglio favorite dal proditorio ritiro delle truppe francesi del generale Championnet, richiamato da Napoleone.
E gli insorti, dopo un’eroica resistenza dovettero arrendersi.

E così “L’Esercito della Santa Fede” del cardinale Ruffo ebbe la meglio. I controrivoluzionari, fedeli al loro sovrano ed esaltati dall’odio verso i Giacobini, erano arrivati nella capitale intonando canti che glorificavano il popolo e il re. Celebre è il “Canto dei Sanfedisti” di autore anonimo che Roberto De Simone e la Nuova Compagnia di Canto Popolare hanno portato al successo negli anno 70 del secolo scorso. Nell’ultima strofa si irride a ‘onna Eleonora, inneggiando alla sua esecuzione in piazza del Mercato ad opera di mastu Donato, il boia del re:
Addò è gghiuta ‘onna Eleonora/ c’abballava ‘ncoppa ‘o teatro/ mò abballa miez”o mercato/
‘nzieme cu mastu Donato.
Seguono processi, spesso sommari, che decretano la condanna a morte, per impiccagione o decapitazione, di ben 122 patrioti repubblicani, con l’accusa di essersi resi “ rei di Stato”.
Il 20 agosto 1799 tocca proprio a Lenòr, assieme a Gennaro Serra, duca di Cassano, a Monsignor Michele Natali, vescovo di Vico Equense e al marchese Stefano Colonna. Il boia li attende in piazza Mercato insieme a una folla irrispettosa, osannante, spietata, che grida vendetta per i morti procurati dai colpi di cannone sparati proprio da Castel S.Elmo dai Francesi e dai loro complici giacobini. “Morte a li Giacubbini”, grida il popolo.
Da “Il resto di niente” di Enzo Striano.
… La fine. Alza gli occhi, verso il mare, che s’è fatto celeste tenero. Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente. Il resto di niente. Vacilla. Mastro Donato, il boia, la sorregge, poi la spinge, con delicatezza. Le tiene una mano per farla salire sopra lo scaletto. Prima di dare il calcio la guarda, con occhio serio, un po’ aggrondato”.
Mentre si accosta al patibolo, qualcuno ode le sue ultime parole. Lei, angelo della libertà, cita Virgilio, un altro angelo che da secoli veglia su Napoli: “Forsan et haec olim meminisse juvabit” (“Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”).

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