Una delle ‘piaghe’ della società medioevale fu l’Inquisizione, e tutto ciò che ne derivò. Essa nacque come istituzione giudiziaria, il suo compito era quello di trovare, processare, convertire e se necessario punire i colpevoli di eresia. Inizialmente affidata ai vescovi.

La parola è derivazione e radice di ‘inchiesta’. L’inquisizione monastico-papale ha radici nel 1184, con la bolla Ad Abolendam di papa Lucio III con la volontà di indagare sulle ortodossie, per arrivare nel 1231, dove papa Gregorio IX nomina i primi inquisitori permanenti, incaricando domenicani e successivamente francescani di compiere missioni di indagine sugli eretici, ne nacque un tribunale.

Non fu l’unica cosa, perché essa partorì negli anni del Medioevo, due uomini di cui i nomi e gli atti abominevoli resteranno incisi a fiamma per sempre nella memoria storica dell’Italia e dell’Europa.

Torquemada
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Il principe degli inquisitori, lo spagnolo Tomás de Torquemada, priore del convento domenicano della Santa Cruz di Segovia e confessore dei Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona. Di famiglia di ebrei convertita, nell’ottobre 1483 fra Tomás venne nominato dai sovrani quale Inquisitore Generale per la Castiglia, l’Aragona, il León, la Catalogna e Valencia, in base all’autonomia della scelta che avevano ottenuto da papa Sisto IV. Da subito creò una serie di tribunali nelle maggiori città del regno, trovando ovviamente ostilità, e iniziò la sua ferocia nel perseguitare i seguaci di fedi diverse da quelle di Cristo. Istituì processi molto rigorosi nei confronti di quegli ebrei convertiti al cattolicesimo, cosiddetti ‘marranos’ che fossero sospettati di falsa conversione. Il suo carattere repressivo e la sua incorruttibilità lo portarono ad essere allontanato dal papa Alessandro VI convinse Torquemada a ritirarsi nel convento di Avila, ma anche da lì riuscì a ottenere dai sovrani spagnoli l’espulsione dal regno degli Ebrei. Iniziò una seconda fase con i processi nei confronti dei musulmani convertiti al cattolicesimo denominati ‘moriscos’ su cui vi era il sospetto di falsa conversione. Certamente l’immagine del domenicano fu nel pieno dell’Ottocento trasformata in un Mostro del Medioevo, e forse le opere a lui dedicate sono forvianti, come le parole di Juan Antonio Llorente che scrisse: “… l’abuso che Tommaso Torquemada fece della sua autorità immensa nel volgere dei 18 anni che passarono dalla sua nomina alla carica di grand’Inquisitor generale di Spagna sino al 18 settembre 1498, giorno della sua morte, fu tale che tornò impossibile agli storici calcolare esattamente il numero delle vittime. Alcuno ha preteso che Torquemada abbia fatto distruggere col fuoco e condannare a pene infamanti più di duecentomila persone di ogni sesso.” Ma non possiamo negare che la sua zelante ricerca delle diverse fedi, la pressante repressione e la volontà di allontanare per sempre ‘il diverso’ dal Regno non abbiamo portato terrore, distruzione e disfacimento della popolazione spagnola e delle sue famiglie. Inoltre, se pur le condanne al rogo firmate dall’uomo furono poche in percentuale, è innegabile che difatti 100.000 circa furono i processi inquisitoriali celebrati negli anni della sua gestione del Tribunale inquisitorio, ovvero circa 6-600 all’anno pari ad una ventina di vittime inquisite, torturate fisicamente o verbalmente al giorno.

Altro nome famoso era Melchiorre.

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Costui era un rampollo di una famiglia potente di Milano, i Crivelli. Egli entrò a far parte dell’ordine domenicano e divenne docente di teologia. Si hanno poche notizie sugli anni giovanili e della prima parte del suo vissuto, il primo documento conosciuto che lo riguarda è il breve del 28 agosto 1518 con il quale Leone X lo nominava inquisitore generale per la diocesi di Milano. La dicitura fu “et alibi etiam, ubi opus erit“, con ampie facoltà di procedere contro chiunque. Non potendo, però, contare, in questa sua azione, sulla collaborazione delle autorità ecclesiastiche locali, il Melchiorre fu costretto a valersi dell’appoggio del potere laico, e in particolare del Senato milanese. In pochi anni tra processi e l’elaborazione del primo Indice dei libri Proibiti pubblicato in Italia, ebbe l’encomio da papa Paolo III divenendo vescovo. L’inquisitore Crivelli si preoccupò di passare al setaccio codici, manoscritti e quant’altro, per identificare un potenziale pericolo, la possibile sorgente di una fede corrotta. Non furono tanti ad essere inquisiti ma rese difficile la vita a molte famiglie che vissero con terrore quegli anni. Per non parlare di molte opere messe al bando e che di questa invenzione tremenda che divenne una delle armi di repressione e di damnatio memoriae della Chiesa.

Nel 1484 papa Innocenzo VIII emanò la bolla Summis desiderantes affectibus, con la quale diede ai frati domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger ebbero pieni poteri in alcune regioni della Germania per svolgere incontrastati la loro opera di inquisitori contro il delitto di stregoneria.

Jacob Sprenger
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Il primo fu noto come Institor, con il mandato di inquisitor haereticae pravitatis, che allargava a tutto il mondo allora conosciuto la sua facoltà di perseguire ogni tipo di eresia come inquisitore. Il prelato non disdegnava, in cambio di particolari indulgenze, denaro e preziosi. Per ovviare ai richiami arrivati da Roma sulla questione e benvolere il papa inasprì con forza ed accanimento contro le eresie e la stregoneria, suscitando in Germania dubbi e opposizioni sia da parte delle autorità locali ecclesiastiche sia da quelle laiche. Al Pontefice arrivavano notizie di malefiche donne che si davano letteralmente anima e corpo al demonio, offrendogli tributi osceni, partecipando ai Sabba, e compiendo la sua infernale volontà. A lui si unì Jacob Sprenger la procura ad agire nella Germania del Nord, lasciando all’altro le regioni meridionali. Dai due nel 1487 venne alla luce il Malleus Maleficarum (“Il martello delle streghe”), un trattato, che ebbe tredici edizioni fino al 1520, ritenuto ed usato come manuale degli inquisitori. Riferimento per gli inquisitori cattolici ed i giudici protestanti nelle indagini e nei processi per stregoneria.

Nelle inchieste e negli interrogatori, la regola che veniva applicata alle prove era semplicissima: qualunque fatto su cui giurassero due o tre testimoni veniva accettato come vero e anche come definitivamente provato e poiché si supponeva che tali malcapitate fossero possedute dal demonio, le streghe non avevano diritti.

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Le si poteva ingannare, maltrattare, torturare ed uccidere e qualunque inquisitore decidesse di combattere la stregoneria, diventava, con la propria azione, un missionario che ne diffondeva ancora di più il seme. Le “prove” erano numerose, la prima, la più astuta e pericolosa era di tipo teorico, ricavato dalla combinazione tra pensiero e linguaggio; poi, c’erano “prove” a scelta: per esempio, gli eretici erano sottoposti alla prova della pietra al collo. Il reo veniva gettato in acqua legato ad una pietra: se annegava era innocente, se invece restava a galla era posseduto dal demonio… in ogni caso moriva! Questa logica binaria, o sei colpevole o sei colpevole, era ferrea e colpiva ogni accusato di stregoneria: se il reo “confessava” era dichiarato colpevole di stregoneria, se invece “non confessava” era considerato eretico, e poi arso sul rogo.

Le donne venivano violentate oltre che torturate; i loro beni erano confiscati appena accusate, prima del giudizio, poiché nessuna veniva assolta. La famiglia intera veniva spossessata di ogni bene; si dissotterravano persino i morti per bruciarne le ossa. Il manuale dell’Inquisizione, stabiliva che la strega accusata doveva essere “spesso e frequentemente esposta alle torture“.  Curiosamente le frustate, lo schiacciamento dei pollici e perfino la ruota erano considerati soltanto parte dei preliminari, e non erano classificati come “vere torture”. Ma la domanda tremenda era: “se credeva o no che esistesse la stregoneria, e se si potessero scatenare tempeste o affatturare uomini e animali”. È da notare che, inizialmente, la maggior parte delle streghe affermava di no. Se la persona imputata negava di crederci, la domanda successiva arrivava con la violenza di una trappola che scatta: “Allora, le streghe bruciate sono state condannate ingiustamente?” E il malcapitato, o la malcapitata, era costretto a dare una risposta. E neanche importava quale fosse, perché la colpevolezza era certa, dal momento che non credere nella stregoneria era già di per sé un’eresia.

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Quando una strega veniva arrestata, si prendevano complicate precauzioni per neutralizzare i suoi poteri: per negarle il contatto con la terra (per collegamento con inferno), davanti al giudice doveva rimanere voltata di spalle per eventuali malie con lo sguardo. Ai giudici veniva vietato il contatto fisico e consigliato di portare al collo erbe benedette e sale consacrato durante la domenica delle Palme. Il processo veniva portato avanti con una conoscenza piuttosto sofisticata della psicologia. Erano sempre controllate perché in caso di suicidio o di tentato suicidio, causato dallo strazio o dal terrore, veniva interpretato come un’ispirazione del demonio, e perciò come un’ulteriore prova di colpevolezza.

Bruciare all’Inferno o bruciare al rogo, certamente le fiamme hanno bruciato molte vittime che rientrano senza colpe nel secondo caso, mentre nel primo, eterne fiamme, si godranno coloro che hanno sentenziato mossi da troppo fervore ceco della fede, troppo attaccamento per il denaro e al potere… che ha lambito i loro cuori, accecato la mente e bruciato l’anima già da vivi.

FONTEaltrastroia.it; treccani.it; aciate.blogspotcom; wikipedia; medioevomisterioso; prabook;viaggiatoricheignorano.blogspot.com; uccronline.it;
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