Negli articoli su Cuma archeologica abbiamo scritto che secondo una leggenda fu un pastore, che nel prendersi un terreno per coltivare, mentre dissestata le zolle di terra si imbatté nella statua-busto di Giove (oggi conservata nel Museo Archeologico di Napoli).

Questa statua non fu subito portata al Museo (che all’epoca non esisteva ancora con questa funzione) ma a Napoli in piena città.

Essa fu arricchita da il resto del corpo con braccia, tronco e gambe e messa su un piedistallo. Posizionata in Largo di Palazzo, l’attuale piazza Plebiscito. Essa dava le spalle al mare (oggi via Cesario Console) e proteggeva alla piazza, come un guardiano.

Era una immensa statua di Giove testimonianza dela prima città della Magna Grecia e anello di congiunzione tra Napoli e l’Ellade. Il Gigante del Largo di Palazzo, così come venne chiamato dai napoletani, fu collocato nel 1668 sul margine meridionale della piazza dal viceré don Pedro Antonio d’Aragona e rappresentò per ben 138 anni il veicolo attraverso il quale i napoletani, con la propria straripante ironia, si prendevano gioco dei potenti.

Oggi diremmo ‘satira’, così come accadeva a Roma con le pasquinate che venivano messe sulla statua Pasquino, figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo. Così a Napoli ebbe ‘voce’, divenne parlante il famoso Gigante.

Essa divenne presto un simbolo del potere autoritario e dal forte impatto evocativo, la statua del Giove Cumano divenne portavoce di lazzari e intellettuali che con sberleffi e componimenti satirici schernivano le cariche istituzionali che si susseguivano nell’adiacente Palazzo Reale.

Così tutti i governati di Napoli, cercarono a più riprese di estirpare questa umiliante condanna con ogni mezzo. Leggenda e storia ci tramanda che il viceré Luis de la Cerda duca di Medinaceli, sul finire del XVII secolo mise una taglia di 8.000 scudi d’oro a chiunque fosse stato capace di cogliere sul fatto i burloni. In risposta, dei lazzari napoletani, la statua parlò con un foglio sulla base con una taglia di 80.000 Ducati d’oro per chiunque fosse in grado di decollare il viceré ed esporre la testa in piazza Mercato.

Durante il ritorno in Spagna di don Antonio d’Aragona, che riempi il solito vascello di opere d’arte napoletane, fra cui molte fontane che allora ornavano la città e venne, il sopracitato, duca di Medinaceli, che era amante dell’artista di teatro Giorgina, divenuta cameriera della moglie, senza pensare alla carestia sul Gigante si ritrovò tale scritta su foglio: “Se’ ne’ ghiuto lo mbroglione, e’ benuto lo cuglione che se tene la Giorgina e nu pensa alla farina”.

Lo stesso viceré, in piena notte, fece smontare da molo e portare al suo paese, una fontana meravigliosa con quattro figure, così il popolo fece urlare al Giove di marmo: “Ah! Gigante mariuolo, t’hai pigliato li Quattro de lo muolo! A mme? Io non songo stato: lo Vicerre’ se l’ha arrobbato.”

Durate i moti rivoluzionari del 1799 e quando divenne Repubblica Partenopea il popolo fasciò la statua cumana con i colori, e sul capo riccioluto fu riposto il simbolo della rivoluzione francese, un enorme berretto frigio che fu poi strappato dai sanfedisti napoletani capeggiati dal Cardinale Ruffo.

Ma è durante il periodo napoleonico che si ebbe il contrasto più duro tra satira e il re Giuseppe Napoleone, fratello dell’imperatore, poco amato a Napoli. Oramai per i Napoletani era chiamato il Portiere di Palazzo e si diceva di rivolgersi a lui per poter parlare con il sovrano o con coloro che lo rappresentavano.

Molti personaggi francesi arrivati in quel periodo a Napoli, come la Santa Patrona Giovanna Antida, ci ha lasciato una lettera che si era recata da ‘questo portiere’ ma non aveva trovato nessuno al palazzo.

Intanto contro Giuseppe Napoleone la statua era ricoperta di lettere, poesie, scritte, e proclami firmate a nome del gigante, tanto che il re decise, stanco dell’intemperanze dialettiche, inizialmente di farla controllare da guardie. Il risultato fu inutile, era comunque pieno ogni giorno di declami, così ordinò che fosse smantellato e condotto nelle scuderie reali, fino a quando, agli inizi del XIX secolo, entrò a far parte della collezione esposta nel Real Museo Borbonico di Napoli.

Si narra che il giorno dopo, sulla base vuota del Portiere di Palazzo o Gigante apparve una frase – eredità– che diceva: “Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali e tutto il resto a re Giuseppe”, allusione che ovviamente riusciamo tutti a comprendere.

Da quel momento calò il ‘silenzio’ sulla statua travolto dell’indifferenza del popolo. Uno dei simboli della città che era riuscito ad attraversare indenne oltre due millenni di storia, riposa (senza essere ricordato) nell’anonimo cortile del Museo Archeologico di Napoli. Un tronco di marmo che passa inosservato.

Quel virile e maestoso corpo del Portiere di Palazzo, nostro custode dei pungenti sberleffi, irriverente Giove che giganteggiava a difesa della città, umiliando potenti e risollevando i lazzari e la popolazione da uno stato di quiescenza, oggi ci guarda e attende il momento per poter tornare in piazza a gridare a gran voce.

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