Questo racconto o favola, per meglio dire cunto, fa parte di una di quelle storie della tradizione che è passata di voce in voce, di territorio in territorio.

In questo caso non vi nessuna fonte di uno scrittore, ma si racconta che era italiana e veniva enunciata di sera sotto il portico dai vecchi contadini ai giovanissimi. Secondo alcuni, si fa riferimento di una storia del nostro continente al sud Italia, e perché non pensare sia della Sicilia, della Calabria, della Puglia o della Campania?

Ecco che i fratelli Grimm, ma soprattutto Gianbattista Basile che recuperano, salvaguardano, romanzano modificano e ne fanno un’opera personale. Poi di nuovo il silenzio e solo grazie ad Italo Calvino viene riproposta all’attenzione della letteratura nell’Antologia delle Fiabe Italiane, da lui scritta.

Questa fiaba, perfetta nella sua costruzione drammatica, è molto suggestiva ed ha varie versioni come alla fine il figlio torna miracolosamente in vita, ma il finale non lieto, senza resurrezione, appare sicuramente più consono allo spirito della fiaba. Ma successivamente i fratelli Grimm, trasformarono il racconto di fratelli pastorelli che per uccidere il cinghiale feroce a nome del re, avrebbero sposato la figlia divenendo eredi al trono.

Il suo vero titolo è La penna dell’uccello grifone, che è il motivo di ricerca e di contesa, ma è conosciuta con L’osso che canta.

“C’era una volta un re che aveva una malattia agli occhi e non vi era medicina che lo potesse guarire, gli dicevano disperati i medici. Ma una vecchia, che era famosa come maga, gli propose un rimedio: la penna dell’uccello grifone che vive su una pianta altissima e mangia i cristiani.

Allora il re chiamò a sé i due figli e chiese di andare a cercare questa penna dell’uccello grifone, ma si raccomandò che tornassero vivi, sani e salvi. Gli donò due cavalli per ciascuno, uno per scorta, proprio perché l’impresa era difficile, e chissà quale insidie avrebbero trovato lungo il cammino.

I due fratelli partirono insieme, ma fatta poca strada si separarono e si diedero appuntamento al quel bivio perfettamente tra un anno, un mese e un giorno. Ma i due fratelli non avevano lo stesso cuore, se il più giovane voleva bene a suo padre, ne aveva pietà per la grave malattia; l’altro, il maggiore, si augurava che morisse presto per prenderne il posto sul trono del regno.

Infatti, invece di darsi da fare alla ricerca, si fermò in una città, buttò via col gioco e le donne ogni suo avere, si vendette perfino i cavalli e si ridusse a fare la vita del vagabondo per tutto il tempo. Il più giovane, invece, si incamminò per giorni e notti, chiedendo di paese in paese chi conoscesse il luogo del mostro. Ma tutti lo guardavano intimoriti e meravigliati, urlandogli contro che voleva morire o suicidarsi.

Un giorno, d’un tratto, in una landa sconosciuta, incontrò quella stessa vecchia che aveva fama di maga la quale gli indicò una pianta altissima dove viveva l’uccello grifone e gli insegnò come prendergli la penna.

Egli doveva salire sulla pianta e nascondersi bene tra i rami perché se l’avrebbe visto lo avrebbe divorato. Una volta appostato per bene, scelta una penna dell’uccello e tenutala stretta, quando allo spuntare del sole, l’uccello si sarebbe alzato in volo, avrebbe tenuto con forza, senza mollarla, così da farsela restare tra le mani.

Così fece e si strappò a penna all’uccello grifone e di corsa riprese la strada di casa, pensando al bene che avrebbe fatto al padre e alla gioia di suo fratello che lo avrebbe accolto con felicità tra le sue braccia.

E cammina e galoppa, arrivò al luogo dell’incontro e vi trovò suo fratello ad aspettarlo, tutto lacero e sporco per il suo vagabondare. Il fratello erede al trono racconto delle sue difficoltà, mentendo spudoratamente, mentre l’altro urlò di esserci riuscito.

Il fratello maggiore, roso da invidia e impaurito che perdesse il trono, gli chiese di vedere la penna di grifone e mentre suo fratello si girava per prenderla, estrasse dalla tasca un coltello e lo ammazzò. Poi lo seppellì in un prato fiorito. Indossò i vestiti del fratello ucciso, prese i suoi cavalli e tornò a casa trionfante.

Il re padre, seppur felice chiese del giovane assente e il figlio maggiore mentendo disse che si erano divisi e non lo aveva visto più da un anno, un mese e un giorno.

Il re guarì e aspettava, giorno dopo giorno, il ritorno del figlio minore, ma invano perché era sepolto nel prato che da allora era eternamente in fiore. Passò molto tempo e il luogo della sepoltura divenne ritrovo di pascoli e lì che un pastorello trovò un osso con il quale si costruì un flauto, pensando fosse di un animale. Quando provò a suonarlo, ne uscì come per miracolo una struggente melodia:

O Pastorino che in bocca mi tieni

suona pur tu che il cuor mi sostieni

mi hanno ammazzato nel prato in fiore

per una penna di uccello grifone”.

Era l’anima dello spirito che ancora viveva, anche se il corpo del giovane si era consumato.

Il pastorello, col suo osso che canta divenne famoso andando in giro per mercati e fiere per il suo flauto magico. La gente oramai non parlava di altro e la notizia arrivò a palazzo giungendo all’orecchio del re che convocò il pastorello a corte.

Il sovrano chiese di questo magico suono del flauto e che sentendolo potesse allietarli il cuore triste dalla morte del figlio.

E il pastorello iniziò a suonare. Quando il re sentì la melodia trasecolò e riconobbe la voce del figlio e l’anima gli si riempì di dolore. Così chiese di poter suonare lui stesso il flauto, e ne uscì un nuovo canto:

 

 “O padre mio che in bocca mi tieni

suona pur tu che il cuor mi sostieni

lui mi ha ammazzato nel prato in fiore

per una penna di uccello grifone”.

E fu così che al sovrano si insidiò un terribile sospetto e fece chiamare dalle guardie il suo erede al trono. E con fare subdolo il padre chiese al figlio maggiore di allietarlo suonando il flauto d’osso e così felice il giovane, che trasalì al nuovo suono:

 “Fratello mio che in bocca mi tieni

suona pur tu che il cuor mi sostieni

tu mi hai ammazzato nel prato in fiore

per una penna di uccello grifone”.

Ascoltate le parole il re capì cosa era successo, aveva capito perché il suo figlio minore non era più tornato. A quel punto, il re, con rabbia e gran dolore chiesa al figlio maggiore di scegliere il suo castigo. Il re ormai era rimasto da solo senza figli seppur guarito.

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