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Sant’Arcangelo a Baiano: la chiesa di sangue

Fatti di sesso e sangue nella Napoli del '500

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«Di orrenda memoria, ma per diversa ragione, non perché infestato di spiriti ma perché bruttato da fatti di libidine e di sangue e di sacrilegio, era il vicolo di Sant’Arcangelo di Baiano, dove si vedeva ancora la chiesa superstite dell’antico monastero di monache benedettine, abolito nel 1577». (Benedetto Croce)

Usanza divenuta poi regola soprattutto nel corso del 500, era quella che tutte le figlie di famiglie aristocratiche, nate successivamente alla primogenita, dovessero prendere i voti. Lo scopo di questo forzato noviziato risiedeva in una questione economica, ossia evitare la dispersione del patrimonio di famiglia a seguito di più matrimoni. Ecco che fanciulle senza vocazione, che spesso avevano assaporato i piaceri della vita agiata e mondana, tra balli, feste e corteggiamenti dell’altro sesso, si ritrovavano all’improvviso prigioniere in strutture monastiche. Questo, presumibilmente è quanto precedette i fatti che indussero nel 1577 alla soppressione del monastero di Sant’Arcangelo a Baiano.

Le giovani che vi venivano “rinchiuse” appartenevano alle più nobili famiglie della città, e tra queste ricordiamo Agata Arcamone, Laura Frezza dei patrizi di Ravello, Chiara Sanfelice dei duchi di Bagnoli, nonché Giulia Caracciolo Rossi dei principi di Avellino, e furono proprio Giulia Caracciolo ed un’altra suora di nome Livia Pignatelli, ad essere sorprese in compagnia dei loro amanti: il marchese Francesco Spiriti da Cosenza, ed il mercante Domenico Piatti. Le accuse che seguirono, furono gravissime: avere relazioni peccaminose con giovani nobili all’interno del monastero. La scoperta fu chiaramente frutto di una soffiata da parte di consorelle e ciò, segnò l’inizio di guerra ed odio spietato tra le novizie, che si schierarono l’una contro l’altra, accusandosi e facendo spesso la spia alla badessa.

Fu in questo clima che nacque un’amicizia molto forte tra Giulia Caracciolo ed Agnese Arcamone, legame che destò l’invidia delle compagne, tanto da malignare che tra loro ci fosse un’intima relazione. Le malevoli voci furono messe in giro soprattutto dalla Frezza e dalla badessa, e fu così che l’altezzosa Caracciolo pensò ad un’atroce vendetta: assassinare gli amanti delle due. Trascorsero solo pochi giorni, ed una sera, mentre i due ignari scavalcavano le mura che cingevano l’edificio per recarsi al luogo dell’appuntamento con le loro “belle”, caddero nella trappola orchestrata da abili sicari e furono uccisi. Lo scandalo che sarebbe potuto nascere a seguito di indagini, indusse le autorità a non investigare. L’attesa però fu breve, perché la successiva morte per avvelenamento della badessa e di due suore di lì a poco, insieme alla scomparsa di altri nobiluomini frequentatori del monastero, nonché la sempre più diffusa voce di incontri amorosi che avvenivano di notte tra le mura del monastero e che addirittura vedevano coinvolto lo stesso Vicerè Don Pedro da Toledo, spinsero le autorità ecclesiastiche ad intervenire. Fu così nominato quale ispettore, il teatino don Andrea Avellino (proclamato poi Santo nel 1712), il quale decise la chiusura immediata del monastero, la successiva soppressione dello stesso, ed il trasferimento delle monache ritenute innocenti nel convento di San Gregorio Armeno.

L’arcivescovo Don Pietro Carafa, furente di rabbia, decise di punire in maniera esemplare le ragazze che si erano macchiate di così gravi reati, e così, queste furono costrette a bere della cicuta, per aver violato un luogo sacro ed avere intessuto relazioni amorose e delittuose. Giulia fu condannata all’ergastolo, Chiara invece, dopo aver visto le compagnie decedute, si conficcò un pugnale nel petto, ad onta dell’ordine ricevuto dai prelati presenti. Tutto avvenne in gran segreto e solo in ambito clericale, senza che notizia trapelasse al popolo. Ma la vicenda non la si riusciva a nasconde, tanto che fu rappresentata da Tommaso De Vivo in un quadro conservato nella pinacoteca del Principe di Fondi, dove sono rappresentate le monache avvelenate, trafitte da spade o precipitate giù dalle finestre.

Dopo la chiusura del convento si incominciò a vociferare di fantasmi ed ombre vaganti, nonché di strane apparizioni forse delle anime maligne delle suore morte, e molti abitanti del quartiere giurano di aver sentito fruscii, lamenti ed urla nel cuore della notte.

I fatti che accaddero tra quelle mura, destarono tanto scalpore, da interessare autori quali Carlo Tito Dalbono, Stendhal col suo libello: Cronache del convento di S. Arcangelo a Baiano, nonché Benedetto Croce, e tutti raccontarono le terribili storie ivi avvenute.

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