Home Cultura Arte Le Danae di Tiziano: tra amor sacro e carnale

Le Danae di Tiziano: tra amor sacro e carnale

Due dipinti dello stesso autore con due simbolismi diversi

0

Tiziano Vecellio vive gli anni del Rinascimento dove vi è la presenza del tratto e dell’uso del disegno di Michelangelo e quindi si spinse su colore tonale. Questa tecnica artistica tipica veneta (da cui lui veniva) lo spinse ad essere uno dei maggiori autori di questo periodo con appunto una sensibile attenzione al colore e all’effetto su di esso della luce. La capacità quindi di rendere tra colori freddi e caldi un’unità perfetta che gioca con la luce e i suoi effetti rendendo duttili le tonalità.

Sicuramente il suo successo arriverà con i Farnese e papa Paolo III, e tra le opere compare la famosa Danae conservata a Capodimonte. La scena riproduce il momento in cui vi è l’originale ingravidamento della protagonista. La figlia di Acrisio, re di Argo, venne chiuse dal padre in una torre perché un vaticinio rivelò al sovrano che un nipote nato da sua figlia l’avrebbe spodestato. Ma nulla riuscì a fermare il fato perché Giove, invaghitosi della giovine, trasformandosi in pioggia d’oro, entra nella stanza e la possiede.

Il dipinto e la scena sono stati rappresentati da più artisti nel corso del Quattro-Cinquecento, ma in questo caso Tiziano ci mostra il momento in cui la principessa è appagata, tra abbandono e soddisfazione. Di lato nella composizione è presente anche un Cupido che impedisce alla nutrice di raccogliere la pioggia per impedire la fecondazione. Lo sguardo è rivolto verso la pioggia, avvolto in un’ombra compiacente, così come il languido corpo si lascia andare nelle gambe quasi scoperte e pronte ad accogliere Giove; la passione e le emozioni della principessa di Argo sono visibili nelle dita della mano destra che stringono tormentano le lenzuola.

In questa prima versione la Danae si dona alla divinità per amore, come è rappresentato dalla presenza del Cupido.

La forte carica erotica del dipinto che prende corpo dalle pennellate morbide e sfatte aveva fatto attribuire per lungo tempo la commissione del dipinto a Ottavio Farnese, ma oggi sappiamo grazie al ritrovamento di alcune lettere che l’opera era per Alessandro Farnese, che aveva mandato al pittore una miniatura della cognata Camilla per un ritratto ma che aveva stimolato l’artista per quell’idea della Danae.

In seguito il quadro fu trasferito a Parma, ma rientrato nell’eredità Farnese, fu preso da Carlo III di Borbone e trasportato a Napoli. Durante la rivoluzione del 1799 fu trasferito a Palermo, per poi farne ritorno. Trafugato dai nazisti durante la II Guerra Mondiale, fu ritrovato in una miniera di Salisburgo e riportato a Napoli dopo la fine del conflitto nel 1947.

Previdentemente Tiziano ne aveva ricavato un cartone, e tanto fu il successo del dipinto che furono tante le nuove commissioni per lo stesso soggetto. In occasione delle nozze di Filippo II con Maria Tudor, il 25 luglio 1554, Tiziano spedisce al re di Spagna una seconda versione della Danae, leggermente diversa dalla prima che doveva entrare a far parte di un camerino del re con opere di contenuto erotico (oggi al Museo del Prado di Madrid).

In questa versione la nutrice è al posto del Cupido, ed essendo la guardiana della torre dove è rinchiusa la principessa (le chiavi sono ben evidenti legate alla cinta) va a rappresentare l’avidità e la stoltezza (infatti è intenta a raccogliere le monete d’oro).

La sensualità e l’erotismo si perde nella completa nudità della Danae e nella manifestazione di Giove che irruento arriva come un tuono. Infine, la creazione di un luogo rustico, le tende, la stanza e la presenza del cagnolino immergono nel cupo rossastro la scena, rendono la scena pregna di pessimismo, in cui il divino è come l’uomo, materialistico.

Se nella prima opera si avverte la poesia della passione e dell’erotismo, nella seconda opera si legge chiaramente il gesto di una violenza e l’uso carnale di un corpo.

foto ph: wikipedia

Exit mobile version