La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22 e 39, La diga del Vajont, a causa della caduta di una colossale frana dal pendio del Monte Toc nelle acque del bacino lacustre alpino costruito con l’omonima diga mentre l’acqua, in esso contenuta, a causa della fuoriuscita, dette vita a una gigantesca onda, simile ad uno tsunami.

Anche se, all’inizio, la struttura, costruita dalla SADE (che solo molti anni dopo sarà considerata responsabile del disastro, per aver ignorato la non idoneità geologica dei versanti del bacino, tali da non renderli adatti ad ospitare un serbatoio idroelettrico) resiste, l’ondata mastodontica, che nasce nel giro di pochi secondi scavalca il bordo, finendo nella valle per poi proseguire la sua corsa.

Decine e decine di milioni di metri cubi d’acqua che, alla fine, distruggono tutto quello che incontrano (con una potenza unicamente paragonabile a quelle delle bombe di Hiroshima e Nagasaki) spazzando via, senza alcuna possibilità di scampo, uomini, case, strade, ponti e animali.

Il peggio avvenne solo dopo, quando all’acqua si sostituì una massiccia coltre composta di fango e detriti che finì per ricoprire i paesi di Bueggio, Dezzo, Angolo, Corna, Darfo.

In pochi istanti, più di 1900 persone scomparvero, inghiottite da ciò che la Natura aveva scatenato, lasciando dietro di sé uno scenario quasi identico a quello di Pompei del 79 D.C. dopo l’eruzione del Vesuvio.

Da allora, sono passati 55 anni, ma tragedie del genere hanno continuato a ripetersi, anche se in maniera minore; come a Sarno e Quindici nel 1998, o Il terremoto dell’Aquila nel 2009, solo perché si è voluto ignorare i rischi legati al territorio e all’ambiente.

Si dice che chi non impara dagli errori del passato è destinato a commetterli di nuovo; i disastri avvenuti dopo il Vajont lo dimostrano, nella maniera più drammatica.

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