Cosa hanno in comune le due città del golfo, ovvero Napoli e Portici?

Tutti risponderebbero sia il mare che le regge, che si uniscono attraverso una lunga strada, o per altri la tratta della prima stazione ferroviaria Napoli-Portici. In verità c’è qualcosa di più antico e originale. Anche in questo caso la tradizione popolare ci ha messo lo zampino… anzi dovrei dire una Rapa.

Il porto di Napoli nel passato si estendeva dall’attuale Municipio fino a piazza Bovio, formando una grande insenatura protetta da due promontori dove oggi sorgono Castel Nuovo, a Ovest, e la chiesa di S. Maria di Porto Salvo a Est. La prima parte è visibile nei ritrovamenti delle antiche imbarcazioni romane, mentre un documento del 1018 ha permesso l’individuazione di due porti: il primo, il portus Vulpulum, corrispondente grossomodo al sopracitato porto romano, mentre il secondo, di più ridotte dimensioni, contiguo e chiamato portus de Arcina, occupava l’area di Portosalvo e arrivava fino all’attuale piazza Bovio.

Durante il regno di Federico II i pisani stanziarono un proprio punto commerciale in città, presso il portus Vulpulum, che da allora prese il nome di Porto dei Pisani, ed ebbero la possibilità di creare una chiesa di San Pietro ad Vulpulum (o San Pietro a Fusariello, odierna San Giacomo degli Italiani), dove è rimasta solo via Loggia die Pisani a ricordo. Con gli Angioini la città divenne un fulcro di commerci non solo Mediterraneo ma anche Europeo. Non a caso nel 1307 il nuovo molo presso il Castel Nuovo, detto angioino o grande, si ingrandì e creò strutture anche interne, con la costruzione di magazzini, di depositi e di fabbriche che continuarono con gli spagnoli che vi aggiunsero il braccio alfonsino e la lanterna del Molo (il faro).

In quegli anni vennero suddivisi anche i vari attracchi per la gestione delle merci, e si avrà: piazza Mercato con pesce e frutta secca, nei moli grandi altri prodotti, in particolare quello della frutta e verdura. Ma il grande mercato di questi ultimi prodotti non arrivava solo via mare, e infatti si sviluppò in alcuni territori interni, ovvero Porta Capuana tra questi. Quindi molti si erano abituati a fare meno percorsi e tali prodotti erano acquistabili sotto casa, a pochi passi. Infatti, poco dopo i porti divennero solo di pesce e dei circhi equestri nomadi. Da qui nacque un modo di dire, proverbio poi, che nell’espressione napoletana indica e significa impegnarsi in maniera smisurata per raggiungere un risultato modesto. Nel tempo diviene anche sinonimo di chi fa grandi fatiche, smisurate nelle azioni, per qualcosa di futile: Jí a ppuorto pe na rapesta (deriva dal latino rapistrum).

Quindi inoltrarsi fino al porto cittadino per acquistare solo una rapa diviene una frase popolare degli usi e costumi trasformandosi o modificandosi: Và jenne’ ‘a ppuorte pe na rapesta… ma la Storia si intromette quando a Portici, che era anticamente soggetto a sfruttamento agricolo, lungo il porto si instaura un ricco mercato di frutta e verdura. Inoltre, vista la somiglianza di Ppuorto (Porto) e Puortece (Portici) il proverbio divenne: Jì a Puortece pe na rapesta. La vitalità però partenopea, che si sviluppa nelle province e nelle città dell’entroterra si diverte a modificare ancora il proverbio, trasformandolo: Jì a Napule pe na rapesta, ossia andare nella città dove in passato ci si recava in occasioni importanti e di certo non per comprare una rapa (che ricordiamo era ritenuto solo un ortaggio per ornamento non avendo un grande sapore). Un’ulteriore versione la troviamo nell’entroterra campano, che invece si presenta con: Vaco a Sessa pe’ n’ uosso, tradotto letteralmente ‘Vado a Sessa per un osso’. Il significato è lo stesso, cambia la cittadina, questa volta Sessa Aurunca e l’oggetto che è di scarso valore, l’osso, senza neanche la carne.

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