In precedenti articoli abbiamo raccontato e descritto i significati di termini partenopei, particolari. Soprattutto del significante che la tradizione popolare cuce nel tempo sulla stessa parola e da quale radice nasce, per poi nel caso tramutarne anche l’uso ‘nel linguaggio parlato’.

Attraverso l’uso di modi di dire, proverbi o pietanze si è risaliti all’interpretazione popolare antropologica con chiave storica ben fondata su quella etimologica e glottologica.

Seguono quindi una serie di termini, utilizzati o in disuso del dialetto napoletano, lingua protetta dall’Unesco e patrimonio mondiale per il suo fascino e per la sua proprietà di ricchezza con termini nati dal mondo greco, romano (Latino), normanno e svevo (tedesco), francese e spagnolo, con incursioni arabe.

Segue l’elenco:

  • Smargiasso che vuol significare gradasso, millantatore, colui che si vanta troppo. Ha una derivazione dall’aggettivo greco màrgos= protervo, ovvero arrogante. Secondo altri studi potrebbe anche derivare dal verbo smaragízein = risuonare, rimbombare.

Il termine molte volte è sostitutivo o rafforzativo di garzone, guaglione. Nel vocabolario di Partenope il senso è sostituibile con favone, grannezzuso, rodamunno, sbardellone, sbafante, spacca-e-mmette-ô-sole, squarcione; mentre il millantatore di parole, supponente e saccente è soprattutto indicato con il termine spallettone. L’origine napoletana potrebbe avere una derivazione anche spagnola col termine majo, appunto spaccone a cui viene aggiunte il suffissi dispregiativo di +asso (in italiano azzo o accio).

Così abbiamo i sostitutivi: favone (dal latino favonius che indica un vento, come semanticamente al vento si possono appaiare le vuote parole, quindi colui che pronuncia parole al vento); grannezzuso (da altezzoso villantatore, e deriva da granne=grande); ed ancora, rodamunno (colui che si vanta con arroganza di imprese straordinarie o veramente affronta rischi ma solo per ostentare forza e bravura, trae origine dall’adattamento locale del nome di Rodomonte, personaggio dell’«Orlando Furioso» di L. Ariosto); sbafante e sbardellone (nel primo caso spaccone che deriva da sillabe pronunciate a bocca aperta be… fa… mentre nel secondo caso  l’etimo è di grande vanesio che vuol significare cascar dalla bardella=piccola sella quindi straparlare da strafare). Per ultimo il più colorito e immaginifico spacca-e-mmette-ô-sole (indicherebbe l’azione di quei contadini che, raccolti i pomidori li spaccano e li pongono al sole perché si secchino, quindi colui che espone a tutti le proprie imprese magnificandone ipotetiche positività, in realtà inesistenti). Squarcione e spallettone (dividere in quattro il primo e rendere cotanta la notizia mentre il secondo è colui che dispensa consigli con la presunzione di saperne di più degli altri).

  • Mastrisso è l’ironica corruzione del latino magister e qualifica colui che vuol dimostrare d’essere onnisciente, di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli degli altri, senza farsi mai coinvolgere ma solo dispensando consigli che non poggiano né su scienza né su esperienza, ma son frutto di saccenteria.
  • Arrassusia significa ‘lontano sia’, ‘non accada mai!’. È un’esclamazione accorata che si pronuncia spesso accompagnata da un gesto scaramantico, nella temuta evenienza di un pericolo, o di un danno. La locuzione è divenuta un termine unico in realtà perché è formata dal vocabolo arabo harasa=arrasso (lontano) e dal congiuntivo sia. Si potrebbe anche tradurre dal latino ‘sia cancellato!’.
  • Piglià ‘nu zzarro dal significato particolare vuol esprimere errare, prendere un abbaglio, incorrere in un impedimento, inciampare in un qualcosa come ad esempio un sasso sporgente; non a caso infatti zarro dall’arabo zahr si traduce con dado o sasso sporgente.
  • Vajassa, divenuto improperio o termine dispreggiativo verso donne volgari, sporche e aggressive. In verità il termine si traduce in serva, fantesca che in arabo, appunto si pronuncia baassa, attraverso il francese bajasse e la traslazione in italiano: bagascia=meretrice.
  • Filoscio, chi non ha mai esclamato: me’ facce ‘nu filoscio. Un panino o per meglio dialettalmente dire uno ‘sfilatino’ (aggiungiamo di pane) con dentro la frittata. Il termine ha origine da filuscie o filusse che dall’arabo ‘felusse’ indica il denaro sonante, il pezzo d’oro oppure dal greco obolo come denaro che porterà probabilmente al re Filippo. Di conseguenza l’etimologia e la traslazione si è unito al simbolismo e uso dei contadini che, dopo la grande fatica, si meritavano un pezzo d’oro, come cibo sostanzioso pane e uova. Quindi il filoscio diviene il meritato contributo alle fatiche che luccica come l’oro ma profuma di bontà.
  • Ciofèca, quando si beve un liquido, o meglio una bevanda (vino, caffè ed altro) scadente, di scarto, di pessimo gusto (tanto da disgustarti). Anche questa ha una derivazione araba: šafèq appunto un liquido, una bevanda corrotta o più il cattivo delle cose, di qualità inferiore, di scarto, di nessun valore ed addirittura uomo di poco conto, donna sgraziata e malvestita. Non a caso lo si usa molto con il caffè che per i partenopei è la ‘bevanda per eccellenza’, o quando vogliamo deridere una persona per come si presenta o per quello che non è riuscito a fare-dimostrare nei fatti e nelle azioni.
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